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Le 7 Frodi Capitali dell’Economia Neoliberista (parte 7 di 7) Le liberalizzazioni. (di Marco Cavedon, postato il 23-03-2014). Ed eccoci finalmente giunti al termine di questa serie di articoli sulle falsità dell’economia neoclassica, iniziata partendo dai concetti più basilari della ME-MMT fino ad arrivare (devo confessare anche un po’ inaspettatamente rispetto le mie premesse iniziali) a fornire di volta in volta dati sempre più nuovi e interessanti per capire quali sono le verità e quali sono le bugie che quotidianamente i media ci propinano. Prima di entrare nel vivo, desidero ringraziare tutti i referenti economici e coordinatori territoriali ME-MMT (assieme ovviamente ai nostri economisti di riferimento e a Paolo Barnard) per le ottime occasioni di confronto ed approfondimento che abbiamo avuto, senza le quali questo lavoro non sarebbe stato possibile. A sua volta, mi auguro che anche questa serie possa essere utile a tutti coloro che, sia in Italia che all’estero, divulgano questo rivoluzionario pensiero economico, nella speranza che un giorno tutti i popoli possano raggiungere la piena occupazione e il pieno benessere ciascuno, vivendo in armonia e pace tra loro e nello stesso tempo liberi. Ma bando alla retorica, torniamo a noi. Un altro (falso) mito dell’economia neoliberista è rappresentato dalle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro e dell’economia in generale, concetti che ogni giorno ci vengono “martellati” in testa dalla quasi totalità dei media (tv, radio e giornali). Ci viene costantemente detto che la flessibilità (altrimenti detta precarietà) sul lavoro è essenziale in quanto solo diminuendo il costo del lavoro le aziende posso essere competitive e ottenere quindi le risorse finanziarie anche per creare occupazione e pagare stipendi (bassi). Abbiamo già visto negli articoli precedenti come di fatto il reddito di un attore economico sia possibile solo mediante la spesa di un altro e ciò è quindi valido anche per il settore privato. Pertanto, dal momento che le entrate delle aziende dipendono dal consumo da parte dei cittadini, precarizzare il lavoro, licenziare con molta facilità e abbassare i salari è una politica che in ultima analisi va contro l’interesse stesso del settore produttivo di una nazione, dal momento in cui, come abbiamo visto nell’articolo precedente, il reddito nazionale è costituito in maggior parte dai consumi interni e dalla spesa governativa. Precarizzare il lavoro alla fine fa l’interesse unicamente delle grandi aziende multinazionali esportatrici, che mirano alla creazione di un’immensa sacca di lavoratori nel sud Europa disposti a lavorare per un reddito misero, al fine di ottenere per se medesime immense ricchezze dalle esportazioni, ricchezze che però non si tradurranno in maggiore benessere per i cittadini di queste nazioni (ricordiamo che al fine di esportare i consumi interni devono essere tenuti bassi). Sono queste le logiche neoliberiste dell’Unione Europea e dell’Eurozona, che uno dei nostri economisti di riferimento, Alain Parguez, descrive magistralmente nei sui interventi e nel suo libro “L’Unione Monetaria Europea – Storia Segreta di una Tragedia” (vedere qui: http://memmt.info/site/lunione-monetaria-europea-storia-segreta-di-una-tragedia/ e qui: http://www.memmtveneto.altervista.org/europarguez.html). Occupiamoci in prima istanza della liberalizzazione del mercato del lavoro e vediamo (ancora una volta facendo riferimento alle fonti ufficiali neoliberiste) come questa non sia affatto la panacea che risolve tutti i mali economici di una nazione, anzi. Abbiamo già visto come nel caso della Germania, ad un aumento della competitività delle aziende non sia seguito affatto un miglioramento né dell’occupazione, né delle condizioni economiche della popolazione e del PIL di questo stato, che si è attestato negli ultimi anni ad un livello vicino allo 0% di aumento annuo (vedere parte finale del seguente articolo: http://www.memmtveneto.altervista.org/frodi6.html). Vediamo ora il caso dell’Italia, dove non a caso si comincia a parlare di flessibilità e di contratti precari alla vigilia dell’ingresso nella moneta unica, vale a dire da circa la fine degli anni ’90 del secolo scorso: http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/la-flessibilita-del-lavoro-e-la-crisi-delleconomia-italiana/#.Uyiy5Kh5MhN. Con i pacchetti di riforme Treu e Biagi, di fatto hanno inizio le politiche di precarizzazione del mondo del lavoro e conseguente contenimento salariale e diminuzione della domanda aggregata interna, nel nome della competitività globale tanto cara all’Unione Europea e proprio a partire da allora la percentuale di lavori a termine aumentò in maniera pressoché costante (vedere grafico sotto): Fonte FMI
Dal primo grafico in alto (che illustra l’andamento del PIL dell’Italia a partire dagli anni in cui il mercato del lavoro fu liberalizzato) si può constatare un andamento di certo non soddisfacente, con punte solo due volte superiori al 2% e un trend generale negativo, fino a giungere alle diminuzioni annue su base costante (anche in valore assoluto) tipiche degli ultimi anni. Per fare un raffronto, negli anni ’90 del secolo scorso (quando comunque già l’Italia aveva iniziato ad applicare le riforme neoliberiste imposte dai trattati europei), il PIL comunque reggeva ancora e un solo anno andò in rosso (più precisamente nel 1993), mentre negli anni ’80 era quasi sempre superiore al 2% di aumento annuo. La diminuzione dei consumi interni, la stagnazione dei salari reali e l’aumento del lavoro flessibile (che in realtà significa lavoro precario), non portò alcun beneficio sostanziale al reddito interno della nostra nazione, anzi, soprattutto dopo la crisi finanziaria iniziata nel 2007, questo parametro peggiorò su base quasi costante. Il secondo grafico rappresenta invece l’andamento della disoccupazione, che in un primo momento sembrò giovare dalle politiche in atto in quel periodo, ma, causa il fatto che comunque ciò fu possibile solo grazie all’aumento del precariato e all’abbattimento della domanda interna, come abbiamo visto non portò ad un miglioramento significativo del reddito complessivo interno (PIL) della nazione e dopo la crisi finanziaria ritornò a risalire, fino a raggiungere il suo massimo valore storico (dall’esistenza della nostra repubblica) pari al 12,5% (con una disoccupazione giovanile addirittura superiore al 40%, per via del fatto che la flessibilità aiuta i giovani ad entrare nel mondo del lavoro). E nell’Eurozona le cose non vanno di certo meglio (contrariamente a quanto affermano ogni giorno i media), con una disoccupazione totale pari al 12% della forza lavoro, vedere qui: http://www.repubblica.it/economia/2014/02/28/news/istat_nuovo_record_per_la_disoccupazione_a_gennaio_il_tasso_balza_al_12_9_per_cento-79846129/. Il terzo grafico è anch’esso molto interessante, in quanto ci consente di vedere l’andamento del nostro saldo col settore estero. Causa l’adozione di una valuta sopravvalutata per la nostra economia (l’euro) che distrusse la competitività del nostro settore industriale (assieme alla sottoscrizione delle regole europee che impongono allo stato forti limiti nel sostengo diretto alle aziende, come recitano gli articoli 107 e 108 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:12012E/TXT&from=IT, a partire dal 2002 la nostra bilancia con le altre nazioni andò sempre più in rosso, per poi tornare a risalire dopo il 2010 fino a raggiungere una posizione praticamente in pareggio. Ciò è stato però possibile solo con l’abbattimento della domanda interna (e quindi anche delle importazioni) e infatti nello stesso periodo di tempo preso in esame non si è verificato un pari aumento né del reddito interno nazionale (PIL), né tantomeno dell’occupazione, a riprova del fatto che le logiche mercantiliste che puntano sul saldo in attivo della bilancia commerciale hanno bisogno di abbattere i consumi interni per esportare beni reali e necessitano di un forte bacino di disoccupati disposti a lavorare con salari bassi, sempre nel nome della competitività globale. Di seguito si riporta l’andamento delle importazioni e delle esportazioni italiane a partire dal 2000: Fonte FMI
Come si evince dal grafico di cui sopra, nello stesso periodo (dal 2010 in poi) in cui il saldo delle partite correnti aumenta verso una posizione di pareggio, le importazioni (come variazione percentuale su base annua) diminuiscono in maniera più consistente rispetto alle esportazioni di beni e servizi e dopo il 2011 vanno in rosso (cioè calano anche come valore assoluto). Ma al di là di questo, al di là del fatto che la precarizzazione del lavoro non porta affatto al miglioramento dei parametri macroeconomici di una nazione e delle condizioni di vita della popolazione, andiamo ora ad analizzare se è veramente sostenibile l’equazione tra liberalizzazioni e competitività di una certa nazione. A tal riguardo ci vengono in aiuto i dati forniti dal World Economic Forum, “una fondazione che organizza ogni inverno, presso la stazione sciistica di Davos, un incontro tra esponenti di primo piano della politica e dell'economia internazionale con intellettuali e giornalisti selezionati, per discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia di salute e di ambiente” (citazione dalla pagina di Wikipedia in italiano). E’ interessante notare la definizione data da questa organizzazione riguardo la competitività di una nazione (pag. 4 della relazione di settembre 2013): “noi definiamo la competitività come l’insieme delle istituzioni, delle politiche e dei fattori che determinano il livello di produttività di una nazione. Il livello di produttività determina il livello di prosperità che può essere raggiunto da una certa economia. La produttività determina anche il livello dei guadagni ottenibili dagli investimenti in una certa economia, che sono fattori fondamentali per guidare i suoi tassi di crescita. In altre parole, un’economia più competitiva è un’economia dalla quale ci si aspetta nel tempo una più veloce crescita.” Di seguito si riportano le schede di alcune nazioni con elencati i fattori più problematici che il World Economic Forum evidenzia relativamente alla convenienza di investire in ciascuna di queste realtà: Viceversa, per la Cina (ovviamente) questo parametro risulta non particolarmente significativo, tantochè compare al terz’ultimo posto. Andiamo ora a vedere la lista dei paesi che il World Economic Forum ritiene più competitivi: Notiamo ai primissimi posti proprio i paesi di cui abbiamo appena parlato (esclusa Cina e Italia), con Svizzera al primo posto, Finlandia al terzo, Germania al quarto e Svezia al sesto. La Cina “stranamente”, nonostante sia un paese in cui le regole sul lavoro sono pressoché inesistenti, si trova al ventinovesimo posto, mentre l’Italia si trova al quarantesimo posto con però come primi problemi le tasse troppo alte e l’accesso al finanziamento, mentre le restrittive regole sul lavoro compaiono al quarto posto (con un punteggio di 9.3, mentre la Svizzera ha un punteggio di 9.9, cioè mercato del lavoro più regolamentato rispetto al nostro). Questi dati sono molto significativi in quanto ci consentono di vedere come la regolamentazione del mercato del lavoro non sia affatto un parametro che ostacola la competitività di una nazione (data dalla sua capacità di attrarre finanziamenti), anzi, uno stato che tutela i redditi e l’occupazione è uno stato che tutela anche chi vuole investire, mentre una nazione che ha una popolazione povera non è in grado di garantire un ritorno economico altrettanto sicuro e proficuo a chi vuole investire, in quanto le aziende prosperano solo in presenza di cittadini benestanti e ben retribuiti che con i loro elevati consumi alimentano il circuito economico. Piccolo dettaglio: anche per Singapore (la seconda nazione più competitiva al mondo) le regole sul lavoro restrittive compaiono come primo problema, mentre per gli Stati uniti d’America compaiono al quinto posto. Veniamo ora al secondo punto di questo capitolo, ossia, alle liberalizzazioni inerenti l’accesso dei privati alla gestione di servizi essenziali e industrie strategiche a partecipazione pubblica. A tal proposito è di particolare interesse il caso dell’Italia, che a metà degli anni ’90 del secolo scorso di fatto realizzò un record mondiale di privatizzazioni dei suoi settori strategici, prassi che ancora oggi è in atto. Contestualmente anche gli altri paesi europei nello stesso periodo realizzarono un forte piano di privatizzazioni (ricordiamo che le regole europee impongono l’eliminazione di qualsiasi trattamento preferenziale per le imprese a partecipazione pubblica) che non sempre portò ai risultati sperati in termini di maggiore efficienza e minori costi, anzi – vedere qui: http://www.consumatoridirittimercato.it/diritti-e-giustizia/privato-e-bello-i-limiti-delle-privatizzazioni-italiane-per-il-benessere-dei-consumatori/. Di seguito si riporta un elenco delle privatizzazioni realizzate nel nostro paese a partire dagli anni ’90, assieme ai loro artefici: E vediamo ora cosa la stessa Corte dei Conti testimonia riguardo ai “vantaggi” di queste operazioni: http://www.ilgiornale.it/news/corte-dei-conti-svela-lato-oscuro-delle-privatizzazioni.html http://www.tgcom24.mediaset.it/economia/articoli/articolo475071.shtml Come si evince dagli articoli di cui sopra, il recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza quanto piuttosto all'incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ecc. ben al di sopra dei livelli di altri paesi europei. I dati disponibili inoltre, come recita il rapporto della Corte dei Conti, "non forniscono conclusioni univoche che l'elevata redditività del settore, influenzata dagli elevati livelli di indebitamento, sia stata effettivamente funzionale a promuovere le politiche di investimento delle società privatizzate". Tutti gli articoli inoltre pongo l’accento sui guadagni da parte dello stato derivanti dalle privatizzazioni; ricordiamo tuttavia come questa sia una logica che rientra a pieno titolo nell’ambito dello “stato azienda”, che prima di spendere deve incassare e ciò non è assolutamente vero per uno stato a moneta sovrana, che non ha alcuna necessità operativa di realizzare bilanci in surplus o in pareggio, anzi, deve spendere a deficit al fine di alimentare la domanda aggregata utile per il prosperare del settore privato. Di fatto con i regimi di monopolio (problema non solo italiano, contrariamente a quanto a volte gli articoli di cui sopra tendono a far intendere) dei principali servizi prima garantiti dallo stato (naturalmente l’acquisto e la gestione di servizi molto estesi e costosi difficilmente può avvenire in condizioni di elevata concorrenza), si è entrati nella trappola della cosiddetta “captive demand”, ossia “domanda prigioniera”. In condizioni di oligopolio/monopolio il privato gestore si trova in una condizione tale per cui può richiedere delle elevate tariffe ai beneficiari, mentre con la gestione da parte di uno stato a moneta sovrana, venendo meno i vincoli di bilancio, viene meno anche la necessità di fare cassa. Ora andiamo ad analizzare in dettaglio l’andamento dei prezzi dei principali servizi italiani privatizzati, a partire dagli anni ’90: Ed è interessante vedere anche il dato dei guadagni dalle privatizzazioni di cui hanno “goduto” le altre economie europee (vedere grafico sotto): Come si evince dai dati di cui sopra, la Germania (il quarto paese più competitivo al mondo) ha venduto poco in rapporto al PIL i suoi “gioielli di famiglia”, mentre le altre economie europee hanno venduto molto di più i loro beni pubblici (alla Germania). E infine diamo uno sguardo approfondito come sempre ai dati macroeconomici, per capire se le privatizzazioni ci hanno portato o meno quell’eldorado di prosperità economica che ci era stato promesso: Fonte FMI
Per quarto riguarda l’Italia, non si osserva un andamento soddisfacente. Il reddito interno nazionale (PIL), subisce una netta flessione in corrispondenza con la prima ondata di massicce privatizzazioni (iniziate nel 1992 col governo Amato), per poi risalire negli anni seguenti e tornare nuovamente a calare dopo il 2000 e soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007. La disoccupazione in corrispondenza delle grandi privatizzazioni verso la metà degli anni ’90 è arrivata a 2 cifre (11%), per poi ridiscendere dopo il 2000 e tornare nuovamente a salire dopo il 2007. Ricordiamo tuttavia come nel corso degli anni 2000 un livello sufficiente di consumi per mantenere l’aumento del PIL fu possibile solo con l’erosione dei risparmi delle famiglie e con un forte aumento dell’indebitamento privato, vedere qui: http://www.memmtveneto.altervista.org/frodi5.html. Non si può pertanto certamente affermare che nel caso Italia le privatizzazioni abbiamo portato ad un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e nemmeno ad un miglioramento del tanto vituperato (da parte dei neoliberisti) debito pubblico: Fonte FMI
Il debito iniziò a ridursi lievemente verso la metà degli anni ’90, rimase pressoché costante dal 2000 fino al 2007 e poi iniziò nuovamente ad aumentare, fino a superare la quota odierna del 130% sul PIL. Le manovre deflazionistiche imposte dall’Europa (avanzi primari, privatizzazioni con conseguenti aumenti dei costi dei servizi, liberalizzazione del mercato del lavoro) hanno abbattuto la ricchezza delle famiglie, i consumi e a lungo andare hanno riportato la disoccupazione a salire, con conseguenti forti spese a deficit da parte del governo per frenare il collasso dell’economia e per sostenere i costi della disoccupazione (sussidi e cassa integrazione per le aziende). Alla luce di quanto sopra, non sussistono pertanto gli elementi per definire il processo di privatizzazione e liberalizzazione di beni e servizi essenziali offerti alla collettività come qualcosa di necessariamente positivo e d’aiuto per il miglioramento dei parametri economici di una nazione, anzi, nell’affidare la gestione di tali servizi a privati (nella migliore delle ipotesi) o ad oligopoli (nella peggiore e quella che si verifica più spesso) molto difficilmente si realizza un contenimento dei costi per i cittadini, mentre per uno stato a moneta sovrana la spesa a deficit non è mai un problema e può sempre garantire basse tariffe e allo stesso tempo investimenti per il miglioramento delle infrastrutture. Se un governo decide di non agire in questo modo, ricordiamo che questa è solamente una scelta politica, mai una reale necessità operativa. Chiudiamo con una curiosità. Sapete chi è stato dal 2010 al 2013 l’uomo più ricco al mondo ? Bill Gates, Barack Obama, Silvio Berlusconi ? No è Carlos Slim Herù, il più importante magnate delle telecomunicazioni dell’America Latina: http://it.wikipedia.org/wiki/Carlos_Slim_Hel%C3%BA. Cliccare qui per scaricare il documento in "pdf".
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Scritto
in codice HTML da Marco Cavedon in data 31-01-2014
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